Fermentazione, svinatura, torchiatura
Il tempo di permanenza nel tino, da cui dipendeva colore e sapore del vino, era determinato dalla esperienza dell’addetto alla vinificazione e variava a seconda del clima e del tipo di vino che si voleva ottenere.
Quando il mosto fermentava e apparivano sul bordo superiore le vinacce, si toglievano quelle inacidite dal contatto con l’aria e si inseriva nel tino la cannella (spina) al posto dello zipolo (biròun). Sotto la cannella un mastello ovale (sòja) raccoglieva il liquido che due uomini riversavano col mesclòun in un sòj e poi nella botte (bòta) Poiché il foro superiore della botte era piccolo si usava un imbuto di legno (lódra) sostenuto da un telaio (tlarètt ed la lódra ).
La botte non veniva completamente riempita, per impedire al vino di fuoriuscire durante la seconda fermentazione, e il tappo non veniva fissato ma solo appoggiato sul cocchiume. In alcuni casi si usavano appositi sfiatatoi (sfiór o sfiuradór). Man mano che il vino calava, la botte andava rabboccata con altro vino (arbuchêr), per evitare fenomeni di ossidazione. Per controllare lo stato di maturazione del vino si facevano prelievi dal cocchiume con il tasto (tàst) e si tenevano sulla botte piccole ciotole di legno (scudèli) con le quali assaggiare il vino. Dopo la svinatura e la sistemazione del vino nelle botti, le vinacce venivano torchiate, per far uscire quel poco liquido che ancora potevano trattenere. Dal tino venivano passate in un mastello con la forca (fursèina) e da questo riversate man mano nel torchio (tôrc). Il liquido (turciadura), raccolto nello scolatoio alla base del torchio, passava in un mastello. Veniva poi prima tagliato con vino buono e lasciato fermentare per un certo periodo di tempo prima di essere bevuto.
Dalle vinacce setacciate con appositi vagli (sdâs da vinasō) si toglievano i semi per fare olio, mentre i graspi venivano usati per drenaggi negli scavi e come concime.